Sento Irripetibili Parole

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Poche chiacchiere. Se devo raccontarvi la storia della mia vita è inutile girarci intorno con metafore e mezzi termini, mettiamolo in chiaro fin da subito.
Il mio lavoro è sulla strada.
Ho passato tutta la vita sul ciglio della strada, ferma come un palo con i fari puntati sulle parti basse, a far scintillare il vestito di lamè e far brillare come un sole notturno il mio capo tutto giallo.
Lavoravo in una strada statale, chilometro 47, poco fuori un paesino abitato da campagnoli ed operai. Gente modesta, senza tanti soldi.
Quando ho cominciato la carriera le auto erano una novità, costavano parecchio e non se ne vedevano tante in giro, specialmente in una strada di provincia.
La mia clientela era quindi composta da gente di paese.
Uomini, li vedevi arrivare dalle tenebre con la falcata alta, a ginocchio piegato, tipica di chi è abituato a camminare nella terra umida e piena di sterpaglie.
Infagottati nei giacconi scadenti, cappello ben calato sul viso nel ridicolo tentativo di non farsi riconoscere, ed il loro misero capitale in mano, pronti ad offrirlo per i miei servigi.
Facevano pena nella loro miseria, ma non è che io facessi una vita migliore. La pena, la carità, è un lusso che non posso permettermi, quindi poche storie. Pagamento anticipato e quando scade il tempo, via! Fine!
Non avevi finito? Vuoi un extra? Caccia i soldi o continui con la fantasia.
Il bello delle strade provinciali, in aperta campagna, è che non passa quasi mai nessuno ed io, che non avevo nessuna possibilità di portare i clienti in un posto caldo, offrivo me stessa lì, sul ciglio della strada, in quella parvenza di intimità che offre l’oscurità ed il silenzio della campagna.

Uomini, che teneri con quello sguardo colpevole, a carezzare le curve, con le dita tremanti, incerte, dubbiose e al tempo stesso determinate a raggiungere lo scopo. Ingenui convinti che fossero questi gesti minori e non il denaro che avevano pagato a rendermi disponibile.
L’illusione, che fregatura.
Quando la riconosci negli altri, genera pena. Poi ti fermi a pensare e ti rendi conto che anche tu vivi nell’illusione e allora la pena si trasferisce su di te. Ti viene tristezza e ti senti depressa.
E l’illuso di fronte a te? Lui non pensa, vive la menzogna ed è felice così.
Chi dei due ha fatto l’affare migliore?

Negli anni ho imparato a rispettare le illusioni. I clienti li ho sempre lasciati parlare, ascoltavo le storie, gli amori segreti, le lamentele sulle mogli e poi parole sconce dettate dalla passione, parole dolci di innamorati persi, pianti, imprecazioni e lacrime di chi si sentiva tradito e abbandonato.

Ho sentito irripetibili parole.
Ho sentito intrepide parole.
Ho sentito indispensabili parole.

Non ho mai giudicato. Ho accolto ed ascoltato questi buffi individui ma quando scadeva il tempo, niente proroghe, caccia altri soldi o tornatene a casa.
Dovevo per forza fare così, il mio datore di lavoro…
Seee .. a chi la vado a raccontare. Chiamiamo le cose con il loro nome, il PADRONE mi mandava i suoi uomini a prendersi i guadagni.
Arrivava questo tizio, si fingeva interessato a me, a come stavo, se tutto andava per il verso giusto, e poi, preso il contante, approfittava di me tutte le volte ed ovviamente gratis.
Non è che avessi molta scelta o questo o smettevo di lavorare. Ed in quel caso il padrone se ne sarebbe fregato, mi avrebbe rimpiazzata, e via, avanti con un’altra sulla strada.
Sono sempre stata un investimento per lui, e come tale mi ha sempre trattato. Per combattere la concorrenza mi ha pure fatto costruire un alloggio di fortuna vicino la strada, non era certo una cosa di lusso, ma offriva una porta ed un tetto ai clienti, che potevano così godere dei miei servigi in qualcosa di meno umido dell’erba alta nei campi coltivati.
Qualcuno ne approfittava, solo per avere un riparo. Spesso ho visto clienti litigare con interminabili discussioni su chi avesse più diritto a stare con me in quel rifugio di fortuna.
Una volta un ragazzo magro dalle braccia violacee e piene di buchi mi è morto fra le braccia. E’ stato terribile, non sapevo cosa fare, chi chiamare, poi un’altro cliente trovandoci insieme chiamò un’ambulanza e la polizia.
Non so come il mio padrone sia riuscito a cavarsela, ma fatto sta che non mi sono mai mossa da li.
Chilometro 47 della strada provinciale. Era li il mio posto, nessuno mi avrebbe fatta andar via.
Facevo bene il mio lavoro e il mio padrone faceva in modo che fossi sempre appetibile. Quando cambiarono le mode il mio vestito lamè fu sostituito con un bell’abito grigio e rosso, ero proprio figa con il mio nuovo aspetto.
Non cambiava solo la moda, anche per chi fa il mio mestiere arriva l’innovazione tecnologica, ed ecco che il mio rifugio di fortuna fu dotato addirittura di un lettore di carte. I clienti arrivavano con la loro tesserina e via, senza mettere mano al portafoglio potevano fare i loro comodi.
Vestiti nuovi, pagamenti nuovi, ma il mio lavoro è lo stesso di sempre, sguardi furtivi, dita tremanti carezze e parole, tante, tantissime parole.

Sempre Intrepide Parole,
Sempre Irripetibili Parole
Sempre Indispensabili Parole.

Tutti abbiamo una data di scadenza, non è scritta da nessuna parte non sai neanche chi l’abbia scritta, ma ad un certo punto cominci a sentirti vecchia, sei vecchia.
I clienti non vengono più, le macchine sfrecciano a tutta velocità, la solitudine un tempo desiderata quando c’era la fila, diventa insopportabile.
Cominci a sentire il peso degli anni, tutta l’umidità presa ogni notte, e poi i calci e le umiliazioni hanno lasciato segni che invece di guarire diventano sempre più profondi.
Nessuno ti cerca più, nessuno si ferma più e ti rendi conto che ormai sei inutile, in piena campagna, in piedi, come il totem di una religione dimenticata. Nient’altro che un palo lasciato ad arrugginire, con le piante che si attorcigliano al piede.

Sento un Incredibile Peso.
Sento Intollerabili Paure.
Sola. Insicura. Paurosa.

Poi un giorno arrivano, gli uomini del padrone. Goffi individui con ridicole tutine, li ho odiati per una vita, ma adesso sono felice di vederli. Smontano i pannelli del mio alloggio, smontano la base. Uno di loro mi gira intorno, rovista alle mie spalle con una pinza in mano, sta per tagliare i fili. Quello davanti a me, con uno dei pannelli in mano dice:
“Guarda che roba, questa cabina telefonica è talmente vecchia che ha ancora la scritta SIP”.

Sentivo Intrepide Parole,
Sentivo Irripetibili Parole,
Sentivo Indimenticabili Parole.

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L’elefante nella stanza

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Nei giorni scorsi pensavo all’argomento che avrei affrontato nel prossimo post sul blog. Stimolato dalle chiacchere con amici e parenti durante le feste ero deciso ad affrontare il problema dell’appartenenza. Parlare di quel bisogno quasi ancestrale di appartenere a qualcosa, e la naturale tendenza a difenderla, a non perderla, a non confonderla con ciò che è altro, diverso. Si tratti di lingua, di nazionalità, di ideologia o settore economico, si sceglie una bandiera e la si difende, anche se tutto intorno a noi muta. Di questo avrei voluto parlare, ma oggi non parlare di quanto successo a Parigi è come ignorare l’elefante nella stanza.

 

Questa mattina leggevo, proprio su l’oraquotidiano, un’intervista fatta al caporedattore del giornale satirico francese. Chiariamolo subito si tratta di un giornale satirico, ateo e anticlericale  – qualcuno lo spieghi a Salvini – come lo fu “Cuore”, per chi se lo ricorda, anche se per la natura delle vignette e lo stile dei disegni a me ricorda più “il Vernacoliere” di Livorno.

Una frase che mi ha colpito nell’intervista è quando il giornalista accenna al fatto che per quanto la nazione francese sia laica – molto più dell’Italia – nessuno a cena ha il coraggio di dire che l’immacolata concezione è una stronzata.

E’ vero, per il quieto vivere, per non offendere nessuno, ci autocensuriamo e cerchiamo di elevare il discorso su livelli filosofici e metafisici, ma il punto di arrivo è quello, ci giriamo intorno per non perdere consenso tra i nostri ascoltatori, per non apparire brutali ed insensibili.

Chi cerca consensi preme su diverse leve che fanno facilmente presa sulla società. Una di queste è, come dicevo prima, il bisogno di appartenenza. Ed ecco che sentiamo da più parti parlare di protezione dei valori cristiani da quelli di altri dei, di proteggere la lingua dalle contaminazioni straniere, le aziende italiche dalle concorrenti oltralpe.

Ascoltiamo parole protezioniste che alimentano paure ancestrali e come trogloditi reagiamo prospettando guerra e violenza.

Come degli adolescenti che giocano a Risiko parliamo di battaglie tra Occidente ed Oriente, tra le bianche armate cristiane e le verdi armate islamiche.

E poi esasperando sempre di più la protezione della bandiera che abbiamo scelto ci rinchiudiamo in recinti sempre più piccoli: Occidente, Europa, Italia, Padania…

E poi cosa? Condominio? Pianerottolo?

Se proprio abbiamo bisogno di una bandiera, scegliamo quella della laicità.

La nazione Laica è una nazione senza confini, che ha il triplo degli abitanti europei, un miliardo, un su sette su questo pianeta è ateo o agnostico.

Invece di spaccare il mondo e tracciare confini ideologici conduciamo le nostre battaglie dialettiche in casa, in famiglia. Come dei piccoli Ataturk difendiamo la laicità della casa, della scuola, della famiglia e quindi dello Stato.

Diamo forza alla prima attuazione pratica della laicità: la scienza.

Quella che ci consente di volare, di curare, di illuminare le case e le strade.

Pretendiamo l’otto per mille alla ricerca, troviamo il coraggio di dire a Natale alla zia religiosa che l’immacolata concezione è una stronzata, che la terra è un granello di sabbia nell’Universo, che l’uomo rispetto all’età dell’Universo è un battito di ciglia. Che non esiste nessun dio, che il rispetto, la tolleranza ed il buon senso sono la chiave della convivenza civile e pacifica, e non c’è  bisogno di scomodare invisibili barbuti nei cieli per affermarlo.

 

Lo ammetto, la frase sull’immacolata concezione lascia perplesso anche me, è irrispettosa nei termini, non certo nel contenuto. Penso allora a Fabrizio De Andrè, cantautore italiano – non a caso – anarchico, che nella canzone “Il sogno di Maria” racconta, con la sua voce morbida e la gentilezza della poesia, lo stupro della madre di Gesù: “…con le ali di prima tentai di scappare, ma il braccio era nudo e non seppe volare”.

Stili molto diversi quelli di De Andrè e del Charlie Hebdo, ma al mondo ci sono orecchie sensibili ed orecchie sorde. Occorre raggiungerle entrambe con lo stesso messaggio, o l’unica voce che rimarrà sarà quella dei Gasparri, Le Pen, Salvini. E in quel caso ci aspetta solo un nuovo Medioevo.

 

Eran trecento. erano giovani e forti. Son morti.

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Inizialmente erano 29, morti di freddo dicevano.

Già questa notizia porta con sé delle immagini spaventose. In mezzo al mare, bagnati fradici. La pioggia ed il vento che non smettono di tormentare il gommone ed i suoi occupanti.

Denti che sbattono, dita blu, il corpo che non smette di tremare. Stringersi al vicino per cercare calore e trovare solo un altro corpo tremante e freddo come il ghiaccio.

Morire di freddo in mezzo al mare.

Non riesco ad immaginare molti altri modi altrettanto atroci di morire.

La notizia, però, è destinata a diventare ancora più orribile.

Non sono ventinove, sono trecento.

Non so perchè, ma mi viene in mente la poesia che racconta la sfortunata spedizione di Pisacane a Sapri. “Eran trecento eran giovani e forti, son morti”.

I ragazzi di Pisacane erano mossi da alti ideali e disposti al “sacrificio senza speranza di premio”.

I giovani morti nel Mediterraneo, no. Non erano mossi da alte aspirazioni politiche, l’unica cosa che li ha spinti a tentare la fortuna è stata la fame, la disperazione, la certezza di non avere un futuro nella propria terra.

Li ha mossi una visione ottimistica di ciò che li attendeva, la certezza di farcela, di arrivare in un posto dove lavorare, guadagnare, comprare cibo e magari pagare il viaggio al proprio amore, la madre dei propri figli.

Desideri umani, mossi dalla pancia più che dalla testa.

Erano giovani e forti, son morti. Non riesco a togliermi dalla testa questa frase. Provo a fare uno sforzo, a spogliarmi di tutta la spontanea empatia che mi prende di fronte a queste tragedie. Provo a ragionare con “il cuore a forma di salvadenaio” – per dirla con De Andrè – ad astrarmi, a considerare flussi nelle cartine geografiche.

I barconi diventano enormi frecce rosse che partono dalla Libia per toccare Lampedusa. Penso a colonnine gialle in mezzo al mare che indicano i soldi spesi per “Mare Nostrum”, “Frontex”, “Triton” , nomi orribili per risultati altrettanto orribili. I costi dei pattugliamenti, dei salvataggi, dei centri di detenzione camuffata da accoglienza.

Eppure anche così, guardando solo i bilanci, non riesco a trovare una logica.

Nel solo mese di Gennaio 3500 persone hanno provato a raggiungere l’Italia.

Settemila braccia, muscoli, forza lavoro.

Gente disposta a fare qualsiasi lavoro pur di avere un tetto e del cibo. Gente disposta ad imparare lingua, abitudini, una qualsiasi competenza in un qualsiasi campo lavorativo. Agricoltura, edilizia, industria, accoglienza. Sono migliaia le possibili applicazioni di una forza lavoro così motivata. Il denaro speso per pattugliare, cacciare, rimpatriare potrebbe essere speso in accoglienza, istruzione, microcredito,  agevolazioni fiscali a quelle imprese che impiegano questi giovani e forti. Accoglierli, farne cittadini in grado di produrre, pagare le tasse, mandare i figli a scuola,costruire alloggi, offrire servizi, ripopolare paesi fantasma complettamente svuotati. Trattarli per quello che rappresentano. Una risorsa. Energia produttiva e positiva per la nostra economia.

Trattarli da delinquenti fa invece un danno enorme, perchè regala questa risorsa, questa forza lavoro, alla criminalità organizzata, quella che succhia risorse e ammorba la nostra società.

L’ho detto prima, ragiono con il cuore a forma di salvadenaio. Mi rendo perfettamente conto che un approccio del genere genererebbe cittadini di serie B, sottopagati e sfruttati. Una politica del genere porterebbe ad agitazioni sociali nel lungo termine, ma adesso, nel breve termine, abbiamo solo cadaveri di serie Z.

C’è un’ipocrisia, quella si, senza confini, che porta i rappresentanti italiani ed europei a parole contrite di circostanza ed un viaggetto nella porta Sud dell’Europa, Lampedusa,  solo quando si tocca un nuovo tragico record.

Magari avessero un cuore a forma di salvadenaio, non hanno neanche quello.

 

Bitcoin. Una follia che sa di rivoluzione

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Quando alla fine del decennio scorso si parlava di una moneta virtuale, inventata ed alimentata da un algoritmo di programmazione, la cosa mi ha incuriosito solo marginalmente. Sembrava più un gioco di ruolo che una vera e propria rivoluzione digital-economica. La seguivo, si, ma distrattamente.

Negli ultimi due anni però la cosa si è fatta decisamente interessante, e se come me pensavate che si trattasse di un gioco o poco più, è giunto il momento di dirvi che anche voi vi sbagliate, il Bitcoin ha preso piede e sta raggiungendo volumi molto interessanti.

Alla fine del 2013 il valore dell’economia dei Bitcoin corrispondeva a circa 6 miliardi di dollari, con un rate di crescita esponenziale.

Chi accetta Bitcoin nel mondo reale? Giusto per fare qualche nome conosciuto, direi Ebay, Paypal, Wikipedia, Dell, Expedia. Ma anche alcuni bar di Berlino, ed un infinità di piccoli commercianti di Bali. Di recente sono stato in un albergo vicino Milano Linate che accetta pagamenti in Bitcoin.

Al mondo esistono 280 bancomat in grado di cambiare Bitcoin in valuta locale. Sei di questi sono in Italia. Uno lo trovate a Roma Termini ed uno a Milano.

E’ però doveroso dire che rispetto alla filosofia della moneta – universale, digitale e distribuita su internet – l’esistenza del bancomat è una contraddizione.

 

La definizione più convincente di moneta che ho trovato è quella che la descrive come una convenzione tra un gruppo di individui che attribuisce ad un oggetto di scarso valore, come una carta ben disegnata e filigranata, un valore molto maggiore a quello che realmente ha.

Il Bitcoin, la moneta virtuale, ha eliminato anche il foglietto di carta, la convenzione si è completamente sganciata dal reale, riducendo a zero il suo costo di produzione e la possibilità di contraffazione.

Le transazioni avvengono attraverso due utenti collegati ad internet, istantaneamente viene presa in carico, ed in meno di un ora raggiunge effettivamente il destinatario. Nessuno stato o banca centrale viene coinvolto. Il costo dell’operazione per chi invia il denaro è inferiore al centesimo di euro. Se avete mai fatto un bonifico internazionale potete capirne immediatamente il vantaggio.

 

La portata rivoluzionaria del Bitcoin sta nel fatto che è completamente sganciata da un sistema centralizzato, la marcatura delle transazioni ed il cambio di possesso di una certa quantità di valuta viene gestito e regolamentato da una rete distribuita di computer sparsi per il mondo che affittano la loro potenza di calcolo in cambio di microsomme (inferiori al centesimo di euro) pagate, manco a dirlo, in Bitcoin.

Nella catena Governi – Banche Centrali – Banche commerciali – Aziende – Lavoratori/Consumatori, il sistema di BitCoin si piazza tra le Banche commerciali e le Aziende, tagliando fuori il sistema bancario dalle transazioni economiche.

Il controllo e gli interventi dei governi e delle banche centrali diventano quindi impossibili. Non esiste neanche un ente centrale da sequestrare, delle porte dove mettere sigilli.

 

Il rilascio di Bitcoin viene generato in una progressione geometrica ogni 4 anni, nel 2017 saranno 15,75 milioni e raggiungerà il suo tetto massimo di 21 milioni nel 2140. Nessuno può cambiare questa regola. Dal 2140 in poi, basta. Fine. Nessun governo potrà produrre moneta per svalutarla, nessuno potrà bloccare il conto in banca, e meno che mai fare alcun prelievo forzoso.

21 milioni sembrano pochi, ma il Bitcoin è divisibile fino all’ottava cifra decimale quindi anche se un giorno un Bitcoin raggiungerà il valore folle di centomila dollari sarà sempre possibile spenderne una quantità pari ad un millesimo di dollaro.

 

Ogni commerciante sa che avere il POS ormai è richiesto da quasi tutti i clienti, ma sa anche che il suo costo in termini di commissioni è molto pesante.

Qualche mese fa c’è stato uno sciopero dei benzinai che protestavano contro le commissioni esagerate delle banche sui pagamenti con bancomat o carte di credito, i loro guadagni si riducevano troppo. Pensate se ogni benzinaio potesse ricevere il pagamento del carburante con una transazione elettronica sicura quanto quella bancaria senza pagare nessuna commissione. Pensate se poteste voi stessi pagare un albergo o comprare delle ciabatte a Bali senza cambiare nella moneta locale, utilizzando il vostro cellulare e pagando un millesimo di euro di commissione.

 

Si tratta di una moneta giovane ed in un mercato abbastanza ristretto, subisce quindi fluttuazioni incontrollate. Per fare un esempio nel 2012 un Bitcoin valeva 50 dollari,  venticinque volte tanto alla fine del 2013 e 400 dollari nel 2014.

Non è certo una valuta dove tenere i risparmi !

Va inteso come un interessante esperimento economico che partendo da internet attacca i colossi della finanza per dimostrare ai cittadini finali che non è necessario affidare ai governi centrali il valore reale delle banconote che teniamo nel portafoglio.

 

Nella storia di internet abbiamo visto come idee innovative e coraggiose, basate sullo scambio di dati, possano mettere in crisi schemi di business consolidati da decenni.

L’industria musicale, quella cinematografica e della carta stampata sanno bene che prendere sottogamba e non adattarsi in tempo alle rivoluzioni digitali può far crollare imperi apparentemente indistruttibili.

Vedremo come reagiranno banche e governi. Se il Bitcoin non si sgonfierà da solo sicuramente assisteremo a demonizzazioni, e molto probabilmente in molti paesi varranno rese illegali le transazioni. Come sanno bene i settori di cui parlavamo sopra queste strategie non si sono mai rivelate vincenti.

Le rivoluzioni, quando riescono, sono fatte così. Puoi adattarti al cambiamento o puoi andartene.

Di sicuro c’è che non si torna indietro.

 

Le dimensioni sono importanti

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Le dimensioni contano. Indiscutibilmente questa frase richiama incertezze ed insicurezze che ogni uomo si ritrova ad affrontare per quasi tutta la vita, ma non è di questo argomento scomodo che voglio parlare.

Le dimensioni contano in ogni caso, e quando si tratta di miliardi di miliardi di chilometri  tendiamo a lasciarcene sfuggire il significato. E quando, per pigrizia, rinunciamo a comprendere, offriamo terreno fertile ad imbroglioni e truffatori di ogni sorta.

Da bambini ci hanno insegnato come affrontare i problemi. Prima di tutto si raccolgono i dati. Eccoli.

  • Il pianeta Terra ha un diametro di circa 12000 km.
  • Il Sole è 100 volte più grande della Terra.
  • La stella Betelgeuse, nella nostra galassia, è 1000 volte più grande del Sole.
  • La nostra galassia è un miliardo di volte più grande di Betelgeuse.
  • L’universo stimato ed osservabile è una cifra di cui non conosco il nome ma composta da un 1 con 23 zeri dopo.

Quindi la Terra è un 1 con 4 zeri chilometri, l’Universo un 1 con 23 zeri.

Se potete prendete un foglio e scrivete questi due numeri, vi aiuterà a farvi un’idea.

 

Fin qui le distanze, riguardo al tempo invece:

 

  • L’uomo esiste da circa 200 mila anni.
  • La Terra da circa 4 miliardi
  • L’Universo da circa 14 miliardi.

 

Adesso proviamo a riportare queste informazioni su una scala comprensibile attraverso una metafora. Sicuramente commetteremo degli errori di proporzione, ma probabilmente saranno in difetto.

Immaginiamo una bella spiaggia, lunga. Mondello può andar bene.

Immaginiamo un uomo anziano con barba e capelli bianchi, lunghi. E’ vestito con una tunichetta bianca ed un bel paio di sandali. Questo signore si chiama “Essere Perfettissimo Creatore e Signore del Cielo della Terra e di tutte le cose”. Per comodità lo chiameremo Dio.

La spiaggia, di sua proprietà e creata da lui con vagonate di sabbia, la chiameremo Universo.

In questa immagine il pianeta Terra è solo uno dei granelli di sabbia di Mondello.

L’umanità è un agglomerato di microbatteri che si agita sul granello di sabbia.

Se consideriamo anche i dati temporali, l’agglomerato di batteri è nato un battito di ciglia fa e probabilmente il prossimo battito di ciglia sarà scomparso.

Adesso prendete il credente di turno che vi giudica perchè non avete mandato vostro figlio a catechismo e chiedetegli di raccontarvi di nuovo la storia secondo cui il signore con la tunica ha mandato suo figlio tra i microbatteri del granello di sabbia per spiegargli come comportarsi.

Riuscite ad afferrare la presunzione e l’egocentrismo che sta dietro questa storia?

Mentre il nostro interlocutore religioso tira fuori ipotesi degne di Star Trek poniamoci la vera domanda che colpevolmente dimentichiamo troppo spesso.

Perchè gente che crede alla storia del figlio inviato sul granello di sabbia in un battito di ciglia deve, sulla base di questa storia, indicarci se e come fare l’amore, procreare, sposare persone dello stesso sesso o ricorrere all’eutanasia?

Se la storia del granello di sabbia li fa star meglio, buon per loro, ma gli adattamenti legislativi al mutare della vita sociale dovrebbero evitare di prendere sul serio chi agita il libro con la storia del granello.

E’ estremamente imbarazzante vivere nel 2014  e dover rimarcare una cosa così banale.

Se siete atei/agnostici/umanisti e vi sentite mosche bianche sappiate che non è così, uno su sette in questo pianeta è ateo o agnostico.

Considerato quanto parlano gli altri gruppi forse è giunto il momento di dire qualche parolina in più.

Siciliani brava gente

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Fine anni ottanta. Ho il motorino da pochi mesi e mi godo il senso di libertà che si prova quando riesci a coprire grandi distanze senza le interminabili attese alla fermata del bus.

Scelgo di fermarmi dallo stigghiolaro di villa Adriana per mangiare quello che, non si sa quando, non si sa dove, ha assunto prestigio internazionale ed un nome anglosassone: lo “Street food”.

Vicino al tavolo dove si tagliano le stigghiole ci sono i tipici personaggi che oggi nella folle corsa al termine anglosassone chiameremmo:

Executive Manager, il proprietario che arrostisce e taglia le stigghiole.

Consultant Manager, cliente affezionato che non la smette di dare consigli.

Cleaning Director, figlio del proprietario che pulisce sommariamente i piatti.

Serving Manager, sempre il figlio del proprietario che quando non lava versa la birra.

 

Nel quadretto c’è qualcosa di anomalo: un nero tra i clienti.

E’ evidente che non capisce bene la lingua italiana, e la lingua parlata dagli altri è abbastanza distante dai canoni dell’Accademia della Crusca.

Il ragazzo nero non capisce, e sorride un po’ impacciato.

Tutti lo chiamano “Carbune”.

“Carbune pigghiami ‘a pezza”, “Carbune iecca sta cosa.”

Sono cresciuto in una famiglia progressista, ed anche se ho solo quattordici anni, l’antirazzismo, per dirla con Gaber, non è solo nella testa ma anche nella pelle. Lo dimostra il fatto che l’indignazione che provo non viene dal cervello, ma direttamente dalla pancia.

Il linguaggio del corpo muta. Le labbra si serrano, li guardo il meno possibile, scuoto la testa, sbuffo. Penso di andarmene. L’ignoranza è una brutta bestia e produce mostri, mi dico.

Osservo, sparo i miei giudizi e distribuisco pene servere ai razzisti ignoranti.  

Poi, per fortuna, guardo meglio.

C’è un bicchiere di birra, uno solo, tutti se lo passano dopo un sorso, e “Carbune” fa parte del giro!

Mi rilasso, cosciente di aver imparato una lezione importante: ascoltare le parole, ma guardare i fatti.

A volte, spesso, i fatti vanno in direzione opposta alle parole e non sempre è un male.

 

In queste settimane di – perdonate il neologismo – “razzisteria” da Ebola mi è capitato spesso di pensare a quel giorno.

Viviamo in una terra particolare.

Una terra dove la pustola sociale della criminalità raggiunge le dimensioni bubboniche della criminalità organizzata, quella che controlla miliardi di euro e prova a trattare con le istituzioni a suon di bombe.

La pustola del razzismo, invece, ha dimensioni ridotte rispetto ad altre zone dove si aggirano i demoni leghisti e neofascisti.

Sembra che da noi l’equazione ignoranza + disagio = razzismo sia vera soltanto quando si ascoltano le parole. Nei fatti le cose vanno diversamente. Spesso vince l’empatia, e superata la diffidenza iniziale si accetta il diverso perchè  “è un bravo cristiano” indipendentemente dal suo credo religioso. Lo sappiamo, da noi la frase “è un bravo cristiano”, non ha nulla a che vedere con la religione, si tratta di qualcosa di ben più alto e che sancisce l’accettazione ed il rispetto. E’ una riconoscimento che, quando capita, fa piacere anche ad un ateo come me.

A volte anche il periodo di iniziale diffidenza viene saltato, se ci si trova in una situazione di emergenza. Di fronte a gente disperata, che sta annegando nel nostro mare, non ci sono leggi, minacce o disagi che tengano. A Lampedusa i cittadini pagano un prezzo salatissimo in termini economici e psicologici, ma quel tragico 3 Ottobre hanno salvato decine di persone sapendo che li aspettava l’assurda incriminazione per favoreggiamento all’immigrazione clendestina. Nonostante le necrofile manovre elettorali dei partiti razzisti, nonostante le folli strategie nazionali per scoraggiare il flusso di migranti, i lampedusani hanno dimostrato un livello di umanità di cui andare orgogliosi.

Pensiamo a loro quando leggiamo delle squallide reazioni di genitori benestanti che minacciano di ritirare i figli dalla scuola che accetta bambini Rom tra i propri studenti. Pensiamo al medico siciliano di Emergency che pur conoscendo la pericolosità del virus Ebola, non ha pensato a barricarsi nel suo recinto per respingere i malati a colpi di mitra ma ha scelto di mettere a disposizione le sue conoscenze per salvare migliaia di persone molto diverse da lui pagando l’altissimo prezzo del contagio.

Parliamo di loro, di questa gente, che nonostante il disagio e le difficoltà sa riconoscere un uomo, un proprio simile, oltre il colore della pelle otre gli invisibili confini nazionali o le abitudini religiose.

Siciliani che al momento di agire si rendono conto di quanto sia assurdo considerare chi hanno di fronte come “altro”, “diverso” o addirittura “minaccia” ed in barba a tutti i Salvini e neofascisti di questo mondo, offrono con un sorriso il proprio bicchiere a chi gli sta di fronte.

 

Il valore sociale di un centro sociale

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La prima volta che ho varcato la soglia di un centro sociale era il 1990, avevo 15 anni. A quell’età, almeno per me, la disobbedienza civile era solo teorica, ben sintetizzata dal verso di Faber: “Ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame”.

Quando varchi la prima volta quel portone tocchi con mano quello che credevi fosse solo un azzardo teorico.

Invece si può fare! Si, se lo ritieni giusto e ti metti in gioco di persona, si può fare.

Entri e ti guardi intorno, è un posto pieno di murales, una sala enorme per concerti e dibattiti, il bar con divanetti sfondati dove stravaccarsi in dieci, le cucine per le cene sociali e su per le scale c’è la zona notte, inaccessibile, se non conosci qualcuno che ci abita.

I ragazzi che lo gestiscono non sono extraterrestri. Certo, alcuni hanno capelli lunghi, creste, piercing, tatuaggi e altre di quelle cose farebbero strabuzzare gli occhi ai tuoi genitori, ma, ovviamente, sono persone più che normali, e dopo un po’ di chiacchere ti invitano a tornare per qualche iniziativa organizzata il giorno seguente.

Il Montevergini, il Da Hausa , lo Zeta, l’ExCarcere, l’Ask, l’Anomalia, HPO, il Booq… e chissà quanti ne dimentico.

Ognuno di loro ha fornito e fornisce ai cittadini moltissimi spunti di riflessione. Il primo è quello di riportare alla luce un edificio di proprietà pubblica, quindi di ognuno di noi, abbandonato, abitato da topi e piccioni e votato alla demolizione.

Chi decide di aprirlo, pulirlo ed organizzarlo, sta dicendo, gridando, ai cittadini che c’è un gruppo di persone che ha voglia di creare punti di incontro, di discussione, di confronto ed espressione

artistica e culturale.

Si vuole usare uno spazio comune per offrire, in modo tangibile, immediato, una mano a chi ha bisogno di uno spazio dove esprimere idee. Parlando, scrivendo, ballando, recitando.

Quel posto c’è, ci sono persone interessate a farlo funzionare e se ti trovi bene puoi restare e dare una mano a gestirlo. Alcuni di loro hanno organizzato palestre, ciclofficine, spazi di lettura, biblioteche dove studiare. Non pretendono tessere, non guadagnano un euro e tutto quello che organizzano ha il costo del contributo libero.Non riesco a trovare nulla che abbia, nella sua semplicità, un valore sociale così alto. Le istituzioni abbandonano edifici e non forniscono servizi che favoriscano socializzazione, confronto ed espressione artistica, ed un gruppo di cittadini lo fa notare nel modo più semplice e naturale… realizzando ciò che manca.

Per certi versi ricorda molto da vicino lo sciopero alla rovescia organizzato da Danilo Dolci sessant’anni fa. E come allora le istituzioni mandano le forze dell’ordine a bloccare, denunciare, arrestare, quando l’unica cosa sensata da fare sarebbe imparare ed imitare.

Per favore, che nessuno mi venga a dire che sto idealizzando e che si tratta solo di un posto dove farsi le canne.

Se un ragazzo vuole farsi una canna va in un giardinetto o in riva al mare. Di certo non occupa uno stabile abbandonato, lo pulisce, monta un palco, mette sedie, bar, divanetti, letti, librerie e tavolini per avere un posto dove fumarsi una canna… no, quello che gli manca è molto di più e lo chiede, lo grida, con gesti di generosità tangibile.

Occupazioni ed occasioni

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Ma insomma, cosa volete da questi ragazzi?

Da anni non fate altro che lamentarvi della narcolessia degli adolescenti di oggi.

Sempre con il capo chino sullo smartphone, sempre davanti alla consolle, sempre sui social network, sempre più isolati, sempre meno partecipativi, sempre più ignoranti, apatici, frivoli.

Poi un giorno, finalmente, si muovono. Goffi quanto volete, ma si muovono.

Organizzano un’assemblea, i partecipanti alzano la testa dallo smartphone, discutono, votano, chiedono le chiavi di un istituto ed una volta soli, qualcosa la devono pur fare.

Sono sicuro che molti di loro una volta soli, dentro il freddo istituto, si saranno rifugiati nell’altrettanto freddo conforto dei Like su Facebook.

Altri avranno portato la consolle per giocare.

Tutto sarà ripiombato nella triste e silenziosa scena dei volti illuminati dagli schermi, mentre intorno tutto sparisce ed invecchia.

Non me la prendo con la tecnologia, quella fa parte del loro tempo, come noi abbiamo avuto la nostra. Devono viverla, devono subirla, devono conoscerne i pregi, difetti, ansie, gioie ed orrori a cui li sottopone. Fa parte dell’essere adolescente nel 2014.

I genitori, quelli che tuonano contro le occupazioni sinonimo delle vacanze di natale anticipate, cosa hanno fatto per la scuola dei loro figli?

Supponiamo che abbiano protestato contro gli edifici fatiscenti. Lo hanno fatto con i loro figli? Li hanno ascoltati sull’argomento? E ancora, li hanno coinvolti sull’adeguatezza dei programmi, disponibilità dei docenti, tempestività nel trovare i supplenti?

Forse lo hanno fatto, probabilmente quando il loro smartphone era scarico ed hanno sollevato la testa anche loro per mettere a fuoco il mondo reale.

Sono un genitore anch’io, e non ho nessuna intenzione di processare chi si sbatte diciotto ore al giorno per pagare affitti, assicurazioni, bollette e spesa. Non voglio neanche colpevolizzare gli insegnanti che, pagati una miseria, svolgono uno dei ruoli più importanti che una società evoluta possa affidare: quello di creare i cittadini del futuro.

Pongo solo l’attenzione sul fatto che l’occupazione è un’occasione.

Gli sdraiati  – per dirla con Michele Serra – si sono alzati. Hanno fatto qualcosa.

Sicuramente è fatta male e dopo qualche ora saranno tornati sdraiati, ma è il momento di sfidarli.

C’è uno spazio enorme, quello scolastico dove studiare il perchè gli edifici sono cosi fatiscenti, perchè i programmi di studio si adeguano con enorme ritardo ai cambiamenti sociali.

C’è un edificio familiare a tutti dove potrebbero nascere gruppi di studio su tematiche di attualità, lezioni aperte su argomenti vicini alle loro esigenze.

Argomenti come sessualità, sostanze stupefacenti, dipendenza dai social network sono tutti lavori interessanti che potrebbero essere fatti con i ragazzi, i docenti ed i genitori.

Se continuiamo a pensare alla scuola come un posto dove affidare in sicurezza i nostri figli e a cui dare la colpa quando il numeretto della maturità non sancisce che nostro figlio è un genio pronto a diventare il nuovo Zuckerberg, non abbiamo via di scampo.

Genitori cogliete l’occasione per parlare, confrontarvi con i vostri figli e fare qualcosa insieme a loro. Docenti, anche se non sarete coperti dall’assicurazione quando varcherete quella soglia occupata, prendete qualche rischio. Organizzate quella lezione che avreste sempre voluto fare ma non potevate perchè fuori programma.

Presidi, sfidate i ragazzi a tenere pulito l’edificio, a garantirne la sicurezza. Fate sentire loro l’importanza e la responsabilità del vostro lavoro.

 

Nel febbraio del 1990 avevo 15 anni, abbiamo occupato il nostro liceo per un paio di mesi. Ho discusso per ore con i miei genitori per convincerli della validità della nostra protesta. Ho partecipato ad una illuminante e profetica lezione del professore di filosofia sulle conseguenze della caduta del muro di Berlino. Ho parlato, discusso, litigato e diviso la pizza con i compagni di quinto anno che fino a quel momento non avevo neanche avuto il coraggio di salutare.

Ho passato lo straccio in un intero piano dell’edificio, quando a casa non mi rifacevo neanche il letto.

In quei mesi sono cresciuto parecchio, ho dovuto mettermi in gioco, dimostrare che quel che stavo facendo aveva un senso ed uno scopo, ed ero in grado di difenderlo.

So perfettamente che le occupazioni di oggi non sono così, ma sono comunque un terreno su cui fare crescere qualcosa. Approfittiamone, o dopo Natale tornerà la luce fredda degli smartphone ad illuminare i loro volti ed il suono di una notifica porterà genitori e figli ognuno verso il proprio telefono.

Giocando con il dizionario

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“LE PAROLE SONO IMPORTANTI ! ” gridava un Nanni Moretti infuriato in un film di qualche decennio fa.

E qual’è il testo che più di tutti ci insegna il vero significato delle parole ed il loro corretto utilizzo? Il dizionario ovviamente.

Oggi il voluminoso tomo che appesantiva i nostri zaini di scuola è stato sostituito da servizi online gratuiti che in una frazione di secondo ci forniscono la definizione corretta di una parola.

Il primo che trovo è il Sabatini Colletti. Comincio a cercare.

Si ma cosa?

Pesco a caso dalla memoria, viene fuori una frase.

… il comune ha stanziato dei fondi per un parco giochi pubblico.

Stanziamento[stan-zia-mén-to] s.m. Destinazione di una somma a un determinato scopo;

… ha dichiarato l’assessore in conferenza stampa.

Propaganda[pro-pa-gàn-da] s.f. Attività volta a persuadere il maggior numero di persone della bontà di idee, ideologie o prodotti commerciali.

..”da oggi i bambini del della città avranno un posto dove giocare e sorridere, stiamo costruendo un futuro di cittadini felici”, ha dichiarato il sindaco.

Sensazionalismo[sen-sa-zio-na-lì-smo] s.m. Tendenza a dare esagerato rilievo a certe notizie, per suscitare l’interesse dei lettori e dell’opinione pubblica

La memoria mi restituisce le frasi della mia compagna qualche giorno dopo.

… portiamo il bambino al parco dove c’è la nuova area giochi? Sono curiosa.

curiosità[cu-rio-si-tà] s.f. inv. Gusto, piacere di accrescere il proprio sapere, di fare nuove esperienze sinonimo di interesse

…guarda che belli questi giochi ci voleva proprio in questa zona. Il comune sta facendo cose buone, bisogna riconoscerlo.

riconoscenza[ri-co-no-scèn-za] s.f. Sentimento di gratitudine nei confronti di chi ci ha fatto del bene

Balzo in avanti della memoria. Stesso luogo, due anni dopo.

… che degrado, tutti i giochi sono rotti o arrugginiti, le altalene smontate perché si sono rotte le catene.

Degrado[de-grà-do] s.m. Situazione di abbandono, di incuria. sinonimo di deterioramento.

… ma perché non fanno la manutenzione? E’ normale che i giochi all’aperto debbano essere mantenuti.

Manutenzione[ma-nu-ten-zió-ne] s.f. Complesso delle operazioni con cui si conserva, si mantiene in buono stato qualcosa. Sinonimo di conservazione, mantenimento

…nello stanziamento di due anni fa non era prevista la voce di manutenzione, nessuno ha il dovere di aggiustarli, finiranno per toglierli tutti.

Spreco[sprè-co] s.m. (pl. -chi) Consumo eccessivo, scriteriato o inutile

Vi lascio con le ultime tre definizioni che a questo punto non hanno più bisogno delle frasi pescate dalla memoria.

Deludere[de-lù-de-re] v.tr. Tradire, non soddisfare le speranze di qlcu.; non corrispondere alle sue aspettative

Incompetente[in-com-pe-tèn-te] agg., s. Che, a causa dell’impreparazione o dell’inesperienza, non sa svolgere bene la propria attività.

Sdegno[sdé-gno] s.m. Riprovazione e risentimento indignato per qlco. o per qlcu. che offende i principi morali e i convincimenti personali

 

Ebook. Il libro low cost

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Sono cresciuto in una famiglia che ha fatto dei libri e della lettura un vero e proprio culto. Ricordo con affetto uno scambio di battute tra i miei genitori davanti la porta di casa. Mentre mio padre si affannava a dare mandate alla porta blindata, mia madre diceva:

– “Ma perché chiudi? Tanto i gioielli me li hanno già rubati tutti.”

– “Si, ma ci sono i libri.”

– “Eh certo! Il mondo è pieno di ladri che entrano nelle case per svuotare le librerie dalle edizioni economiche!”.

Bello sarebbe un mondo dove la gente avesse bisogno della lettura invece che del cibo per sopravvivere.

Amo i libri in modo naturale, quasi genetico. Comprendo perfettamente chi mi parla del fascino della carta stampata, l’odore dell’inchiostro, l’affascinante duttilità delle edizioni economiche, l’elegante rigidità delle prime edizioni con le alette che si offrono come segnalibro.

Gli eventi della vita mi hanno portato a fare dell’informatica il mio mestiere. Probabilmente è questo il motivo per cui le innovazioni digitali mi suscitano curioso ottimismo più che ostile diffidenza.

Gli Ebook non fanno eccezione, li vedo come una fantastica occasione più che una minaccia al caro vecchio libro.

Proviamo a fare un passo indietro e guardare cosa succedeva qualche secolo fa.

I libri erano scritti a mano, gli amanuensi li ricopiavano. Effetto primario di questa realtà era che i libri erano pochi, costava moltissimo realizzarli e la loro diffusione limitata a quei pochi che potevano permetterselo.

Alla metà del XV secolo la prima grande rivoluzione. Gutemberg stampa la bibbia.

La stampa a caratteri mobili consente di abbattere i tempi ed i costi di copiatura.

Quali effetti ha avuto?

La maggiore diffusione dei libri. Realizzarli costava meno, si poteva rischiare e pubblicare qualcosa di diverso dai trattati di botanica o trascrizioni religiose. Gli amanuensi persero il lavoro, alcuni diventarono editori, intanto i nostalgici del manoscritto parlavano del fascino della copia unica, delle imperfezioni e sbavature, dell’odore dell’inchiostro. La maggiore edizione di libri abbassò anche la qualità dei testi, lo so che la qualità è soggettiva, ma prima di lanciarvi nella difesa del soggettivo pensate a Federico Moccia e Fabio Volo…

Con il nuovo millennio, la seconda grande rivoluzione. Arrivano gli Ebook.

I costi di realizzazione diventano quasi nulli, la distribuzione idem.

Quale effetto dobbiamo aspettarci?

Lo stesso di 600 anni fa. Maggiore distribuzione, maggiore numero di autori, minore qualità dei testi e molti editori che dovranno adattarsi o cambiare lavoro.

I nostalgici parleranno di quelle magnifiche caratteristiche che dicevamo all’inizio.

L’editoria ha inizialmente risposto aumentando i prezzi, è una reazione naturale, anche se miope.

Aumentare i prezzi colpisce il lettore accanito, il cliente più fedele, quello che compra 4 libri al mese, non certo quello che regala a Natale il libro di Bruno Vespa al direttore. Ecco che il lettore accanito, quello che ha un viscerale bisogno di storie, si rifugia nell’ebook, soluzione economica che, come tutti i low cost, ha delle scomodità: la batteria scarica, la sabbia graffia lo schermo, se si bagna è la fine. Inoltre la libreria sarà affidata ad un hardisk, per farla scomparire non serviranno improbabili ladri muscolosi affamati di cultura, basterà un magnete.

Insomma per il lettore sono più le scomodità che i vantaggi, ma la spirale che spinge gli editori ad aumentare i prezzi ed i lettori a rifugiarsi nell’ebook ha un solo epilogo possibile. Il libro stampato diventerà raro come il manoscritto.

Come qualsiasi paleontologo sa, una specie è vincente se è capace di adattarsi al cambiamento prima degli altri. La “specie” di chi vive sulla carta stampata, autori, editori, librai dovrà adattarsi al cambiamento o cambierà mestiere. Lo fecero alcuni amanuensi seicento anni fa dovranno farlo editori e librai oggi.